16 Febbraio 2023

L’anomia dell’ordinamento penitenziario sul diritto alla sessualità intramuraria al vaglio della Corte costituzionale

Con l’ordinanza in oggetto viene sollevata questione di legittimità dell’art. 18 o.p. nella parte in cui non prevede che alla persona detenuta sia consentito, quando non ostino ragioni di sicurezza, di svolgere colloqui intimi, anche a carattere sessuale, con la persona convivente non detenuta, senza che sia imposto il controllo a vista da parte del personale di custodia (uff. sorv. di Spoleto, 14.12.2022, ord. 2023/23, estensore Gianfilippi)

È giusto concedere al detenuto il diritto di avere rapporti intimi con la propria partner nel corso dei colloqui in carcere? Attualmente il nostro ordinamento non lo consente poiché la legge prevede che i colloqui visivi debbano avvenire sotto il costante controllo visivo del personale di custodia. «I colloqui si svolgono in appositi locali, sotto il controllo a vista e non auditivo del personale di custodia»: così recita l’art. 18 co. 2 dell’Ordinamento penitenziario.

La Corte di Cassazione nella sentenza n. 1553 del 1992 ha affermato che il vigente ordinamento penitenziario esclude, per i detenuti, la facoltà di rapporti sessuali, anche fra persone unite in matrimonio, nel carcere. Tale esclusione appare conseguenza diretta della privazione della libertà personale, ma quest’ultima espressione non sembra tener conto di un contesto sovranazionale in cui diffusamente la privazione della libertà personale non si associa affatto ad un divieto assoluto di esercitare la sessualità con il/la partner in libertà, in appositi momenti di incontro, né si confronta con l’assenza di una previsione di tale divieto tra le pene, anche accessorie, previste nel Codice penale.

Il problema più in generale è interrogarsi se il diritto all’affettività e all’intimità del detenuto sia effettivamente meritevole di tutela da parte dell’ordinamento. Si pensi che su 47 componenti del Consiglio d’Europa, 31 stati hanno normative che consentono questa facoltà: attraverso varie procedure consentono ai detenuti di ottenere incontri privati con il coniuge. In passato si era cercato di istituire le cosiddette “case dell’amore” in carcere per consentire ai detenuti di mantenere relazioni affettive con i propri partner ma dopo una serie di polemiche la proposta poi è stata abbandonata.

La questione è tornata di attualità perché in data 14 dicembre 2022 un magistrato di sorveglianza di Spoleto ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 18 dell’Ordinamento penitenziario nella parte in cui non concede ai detenuti detta facoltà. In particolare, nella parte in cui non prevede che alla persona detenuta sia consentito, quando non ostino ragioni di sicurezza, di svolgere colloqui intimi, anche a carattere sessuale, con la persona convivente non detenuta, senza che sia imposto il controllo a vista da parte del personale di custodia, per contrasto con gli artt. 2, 3, 13 co. 1 e 4, 27 co. 3, 29, 30, 31, 32 e 117 co. 1 della Costituzione, quest’ultimo in rapporto agli artt. 3 e 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

Nello specifico, è stata inviata alla Corte costituzionale la richiesta di un detenuto della casa di reclusione umbro di poter avere colloqui privati con i propri familiari e, in particolare, incontri intimi con la propria compagna. La Consulta dovrà allora valutare la legittimità della norma che vieta le relazioni personali (incluse quelle sessuali) tra detenuti e rispettivi partner. Già nel 2012 vi era stata una pronuncia sulla questione in cui la Corte costituzionale ha ritenuto fondato il problema e ammissibile il diritto dei detenuti alla sessualità, rimettendo malgrado la decisione al Parlamento. La Corte ha avuto poi modo di esprimersi sulla ratio della scelta negazionista del legislatore italiano con la sentenza n. 301 del 2012 dichiarando l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 18 co. 2 della Legge n. 354 del 1975, nella parte in cui prevede il controllo visivo del personale di custodia sui colloqui dei detenuti e degli internati, impedendo loro, in tal modo, di avere rapporti affettivi intimi, anche sessuali, con il coniuge o con la persona ad essi legata da uno stabile rapporto di convivenza (1).

Nel corso delle ultime legislature sono stati presentati diversi progetti per riconoscere e regolamentare la possibilità di relazioni intime all’interno del carcere. Fino adesso però nulla è stato fatto. La sola opportunità di esercitare l’affettività è affidata ai cosiddetti “permessi premio”, che consentono ai detenuti (una minima parte e in casi limitati) di trascorrere brevi periodi nella propria abitazione.

Il Ministero della Giustizia ha valutato la fattibilità di una proposta che era stata avanzata nel 2020 dal Consiglio regionale della Toscana, che prevedeva la realizzazione di specifiche strutture all’interno dei penitenziari nelle quali garantire uno spazio privato tra le persone detenute e i partner, senza alcun tipo di controllo (audiovisivo o videovisivo). All’iniziativa della Toscana si era aggiunta quella del Consiglio regionale del Lazio, che proponeva ulteriori misure per tenere viva l’affettività in carcere, come l’istituzione di permessi di necessità in caso di congiunti in pericolo di vita e colloqui con i figli minori in spazi all’aperto (2).

Se da un lato le istituzioni locali cercano da anni di sollecitare il Parlamento a legiferare in merito e ad adeguarsi alle normative che in tema di affettività e sessualità in carcere sono ormai consolidate in paesi europei come Francia, Spagna, Croazia, Germania, Olanda, Norvegia, Danimarca e Albania; dall’altro, molti tendono a collegare simili iniziative ad un qualcosa di futile che rischia di trasformare le prigioni in “bordelli” e gli agenti in “voyeur”.

L’art. 18 co. 3 prevede che siano adibiti locali atti a favorire una dimensione riservata del colloquio, che potrebbero essere opportunamente adattati anche per incontri intimi, purché fosse rimosso l’ostacolo oggi rappresentato dalla previsione dell’inevitabile controllo a vista.

Dunque, sebbene siano ormai decenni che si parla del diritto all’affettività e alla sessualità all’interno degli istituti penitenziari italiani, non si è ancora giunti a rispondere a quella esigenza reale e fortemente avvertita.

Il divieto della sessualità in carcere crea problematiche legate alla salute mentale delle persone ristrette. Lo stesso magistrato di sorveglianza, scrive che è lesivo anche sotto il profilo dell’umanità della pena, poiché si impone una limitazione così pregnante di una componente essenziale della vita di ogni persona, che va ad aggiungersi alla privazione della libertà un sicuro surplus di afflittività, non sempre necessitata da ragioni di sicurezza, ma anche dal punto di vista della finalità rieducativa della pena. Ne derivano, quindi, anche conseguenze desocializzanti. Tale compressione della dimensione sessuale dell’affettività configura una forma di violenza fisica e morale sulla persona detenuta (3).

La sentenza costituzionale n. 301/2012 converge su un punto essenziale: la previsione dei cosiddetti “permessi d’amore” in carcere non può che scaturire da una scelta parlamentare. Secondo i giudici costituzionali, permettere alle persone sottoposte a restrizione della libertà personale di continuare ad avere relazioni affettive intime, anche a carattere sessuale rappresenta una esigenza reale e fortemente avvertita, la quale trova attualmente, nel nostro ordinamento, una risposta solo parziale nell’istituto dei permessi premio. Si tratta, dunque, di un problema che merita ogni attenzione da parte del legislatore. Dal 1975 ad oggi la Magistratura di sorveglianza e l’amministrazione penitenziaria non hanno mai autorizzato un detenuto ad avere relazioni sessuali con il proprio partner. Secondo la Cassazione, infatti, il vigente ordinamento penitenziario esclude, per i detenuti, la facoltà di rapporti sessuali, anche tra persone unite in matrimonio, nel carcere; tale esclusione rappresenta una conseguenza diretta della privazione della libertà personale, propria della reclusione (4).

La detenzione condiziona in maniera significativa i contatti che i soggetti ristretti hanno con il mondo esterno e i legami affettivi degli stessi. Nel contesto dell’esecuzione penitenziaria, le visite familiari non devono essere considerate un privilegio, ma un vero e proprio diritto delle persone recluse e delle rispettive famiglie sancito dall’art. 8 della Convenzione europea (5). La mancanza di contatto fisico causerebbe un aumento della tensione dei detenuti all’interno delle strutture (6).

L’operatività di un simile dispositivo proibizionista produce profondi strappi al tessuto costituzionale di cui l’intero ordinamento penitenziario dovrebbe essere foderato.

Si viola il principio costituzionale di legalità delle pene, sancito all’art. 25 co. 2 della Costituzione: la detenzione in carcere a seguito di condanna comporta la privazione della libertà personale, non anche la mutilazione di tutte le libertà della persona.

Si genera una compressione oltremisura della libertà personale del detenuto, intesa nel senso più stretto e autentico di libera disponibilità del proprio corpo (art. 13 co. 1 della Costituzione) anche a fini sessuali.

Si viola l’art. 32 co. 1 e 2 della Costituzione, posto a garanzia del diritto alla salute.

Epitome di tutti questi strappi costituzionali è l’annichilimento della dignità personale del detenuto.

Si realizza un illegittimo ostacolo alla risocializzazione (in violazione dell’art. 27 co. 3 della Costituzione).

Ancora, l’operante dispositivo proibizionista intramurario mette in discussione anche il divieto di pene contrarie al senso di umanità (art. 27 co. 3 della Costituzione): generando un’«astinenza etero-sessuale forzata» che colpisce il corpo del detenuto in una delle sue funzioni vitali essenziali, produce una vera e propria somatizzazione della pena. Si tratta di un’aggiuntiva pena corporale: la forzata astensione sessuale, la quale rappresenta un’evidente contraddizione all’interno dell’attuale ideologia penitenziaria, secondo la quale il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona.

La metamorfosi della pena in una punizione corporale di ritorno trova dimostrazione proprio nel regime giuridico del permesso premio. Al fine di coltivare i propri interessi affettivi, il detenuto può disporre di tale beneficio penitenziario: ad esso può accedere per regolare condotta. Ciò rivela che l’amputazione della sfera sessuale è parte integrante del contenuto giuridico della pena detentiva da scontare, in un’unione – costituzionalmente vietata eppure legislativamente imposta – con la restrizione della libertà personale del condannato (7).

La Corte dovrà accertare l’incostituzionalità della disciplina penitenziaria nella parte in cui non consente alle persone sottoposte a restrizione della libertà personale modalità di incontri prolungati e riservati, sottratti al controllo a vista del personale di custodia, al fine di tutelare il diritto all’intimità affettiva e sessuale del detenuto e dell’internato.

Occorre sottolineare che quella dell’affettività in carcere costituisce una esigenza reale e fortemente avvertita e merita ogni attenzione da parte del legislatore. È una componente essenziale della persona umana: negarla e mortificarla equivale a una crudele mutilazione.

Il legislatore italiano ed il Giudice delle leggi, tuttavia, attualmente adottano un approccio tendenzialmente negazionista, preoccupandosi di tutelare le condizioni di ordine, sicurezza pubblica, e prevenzione dei reati (8).

Nonostante i lavori svolti dalle Commissioni ministeriali di affettività, il problema dell’affettività negli istituti penitenziari risulta essere pressoché irrisolto. Il legislatore italiano a fronte di una violazione costituzionale dovrebbe intervenire e dovrebbe seguire le orme dell’esperienza di altri Paesi lasciando spazio ad un approccio concreto, che preveda un periodo di verifica e di successiva valutazione degli esiti ottenuti.

Di seguito il testo dell’ordinanza:

Ord questione costituzionalità colloqui intimi detenuti familiari

a cura di Beatrice Addabbo (Università di Pisa)

(1) Cfr.  L. Cuppari, “Amore sbarrato”: affettività e sessualità dei detenuti come diritti fondamentali (parzialmente) inattuati. Approccio negazionista del legislatore italiano in una prospettiva di analisi comparata, in Giurisprudenza Penale Web, 2019

 

(2) L. Manconi, Il diritto dei detenuti alla sessualità, in La Repubblica, 18 gennaio 2023

 

(3) D. Aliprandi, “Il divieto di affettività configura una violenza fisica e morale al detenuto”. Ora la parola alla Consulta, in Il dubbio, 19 gennaio 2023

(4)  A. Pugiotto, Della castrazione di un diritto: la proibizione della sessualità in carcere come problema di legalità costituzionale, in Giurisprudenza Penale Web, 2019

 

(5) M. E. Salerno, Affettività in carcere e diritto alle visite familiari. A Strasburgo, tra affermazioni di principio e tutela effettiva, in Giurisprudenza Penale Web, 2019

 

(6) L. Cuppari,  “Amore sbarrato”: affettività e sessualità dei detenuti come diritti fondamentali (parzialmente) inattuati. Approccio negazionista del legislatore italiano in una prospettiva di analisi comparata, cit.

 

(7) A. Pugiotto, Della castrazione di un diritto: la proibizione della sessualità in carcere come problema di legalità costituzionale, cit.

 

(8) L. Cuppari, “Amore sbarrato”: affettività e sessualità dei detenuti come diritti fondamentali (parzialmente) inattuati. Approccio negazionista del legislatore italiano in una prospettiva di analisi comparata, cit.

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